“Risolvere un problema significa semplicemente rappresentarlo
in modo da renderne evidente la soluzione”
da: S. AMAREL, On the Mechanization of Creative Process
in: Spectrum 3, aprile 1966
In un contesto contemporaneo indirizzato ad una, apparentemente irreversibile, accelerazione delle dinamiche del cambiamento e della mutazione, dove la tendenza all’estetizzazione del quotidiano viene via via ad interessare ogni più singolo aspetto della società e del costume, è indubbio che anche il concetto di “abitare”, e quindi di abitazione, risenta di questa condizione. Il desiderio di cambiare l’aspetto e l’assetto della propria casa quasi come se si cambiasse un vestito, sta assumendo valori del tutto inediti. Del resto, è nell’etimo stesso di abitare, dal tardo latino habitare, frequentativo di habeo (avere possedere), ma anche da habitus (abito, vestito), che ritroviamo, in nuce, questo concetto di casa come qualcosa da “indossare” e che quindi deve rispondere/appagare i nostri desideri/necessità. Lo stesso fenomeno IKEA, dietro al business dell’arredamento low-cost, in realtà si nasconde (disvela) proprio questa necessità (desiderio) indotta (ricercata) del continuamente nuovo, dell’inseguimento al soddisfacimento del desiderio di rinnovamento, di cambiamento, di adeguamento ai trends della moda, inducendo ad assimilare la libreria, il divano, la camera, etc… a degli “abiti” che possono (devono) essere cambiati secondo archi temporali sempre più contratti.
E’ indubbio però che, la facilità con la quale possiamo cambiare un vestito (ma anche altro …: cfr. l’ormai “vecchio” fenomeno Swatch che ha portato l’orologio a divenire accessorio dell’abbigliamento e quindi come tale da cambiare nell’arco della stagione) si scontra con la fisicità ed inerzia della conformazione della casa concepita e realizzata nei suoi “quattro muri”. E’ indubbio che la casa si sviluppa come sequenza spazio-funzionale di stanze delimitate fisicamente da muri e quindi difficilmente riconfigurabili, ma nell’attuale passaggio dalla modernità forte del ‘900, impegnata nel realizzare progetti definitivi, a quella odierna, debole, caratterizzata dall’indeterminatezza dei processi, anche quelle “quattro mura” stanno perdendo la loro fissità e matericità.
Il presente progetto, che comunque è risposta formale ad una serie di esigenze espresse ed inespresse della committenza, vuole indagare proprio in direzione di una casa (abitazione) concepita non come scacchiera di stanze chiuse ma come successione/spazializzazione delle funzioni ad opera di “oggetti” che creano/modificano lo spazio intorno ad essi, configurando successioni spazio-funzionali assolutamente libere da “partizioni murarie”.
La cucina, assecondando questo concetto, si nega quale spazio tradizionale intercluso proponendosi invece come vero e proprio “oggetto” generatore di spazi e relazioni attorno e dentro di sé.
La richiesta da parte dei Committenti era di definire quello che veniva da loro inteso come “angolo cottura” a fronte di uno “stato di fatto” caratterizzato da due spazi giorno A e B contigui (stanze). La risposta progettuale ha invece indicato una soluzione che, proponendo un vero e proprio spazio cucina a cavallo tra i due ambienti, consente di metterli in relazione dinamica, caratterizzandoli in spazio pranzo e spazio soggiorno, nonché creando l’ambito atrio-ingresso che prima non esisteva. Essendo, oltretutto, la Committente una appassionata di cucina, la stessa doveva essere per forza di cose “soggetto fulcro” degli spazi giorno.
La sua forma, nell’intento di decostruirne l’unità, si articola quale risultato dell’analisi della spazialità di uno stato di fatto recepito come tale creando relazioni, aperture e chiusure visuali nei confronti delle funzioni-spazi attigui. Ci si è concessi una licenza semantica, in richiamo alle tradizionali cucine, identificata nella cappa/camino in acciaio Corten che si incunea tra le travi e la capriata. Tra i materiali utilizzati, scelti comunque in relazione al contesto nel quale il progetto si inseriva, a parte il classico rovere rigatino ed l’ormai desueto wengé, merita la citazione il Diafos bianco della ABET laminati (utilizzato per ante, rivestimenti e soffitto) che va apprezzato per la sua caratteristica tendente a negarne superficie e matericità quasi che fosse un materiale vitreo, opalescente, porcellanato che cattura la luce facendola propria.
In merito alla scala, anch’essa concepita come un elemento “staccato” dai muri, diviene parte integrante dei moduli cassone ad estrazione celati dai pannelli, sempre in rovere rigatino, che rappresentano un’ottimizzazione degli spazi consentendo di recuperare un volume, quale è quello del sottoscala, che altrimenti rimane generalmente sottoutilizzato se non inutilizzato.
Dunque siamo/eravamo abituati a “ragionare” per stanze, ma il futuro prossimo potrà forse condurci ad abbandonare tale concetto, a favore di una temporalità che sposta i “mobili”, ora relegati al perimetro delle stanze, al “centro” di uno spazio più ampio e libero e trasformandoli a loro volta in elementi oggettuali generatori di nuove dinamiche e potenzialità.
luca@missio.it
riferimenti bibliografici:
Martin HEIDEGGER, Martin, “Costruire, pensare, abitare”, sta in: M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano: Mursia 1976;
Andrea BRANZI, “Modernità debole e diffusa. Il mondo del progetto del XXI secolo”, Milano: Skira 2006;
Ronald BARTHES, “L’impero dei segni”, Torino: Einaudi 2002;
Terence RILEY, “The Un-Private House”, catalogo dall’omonima mostra al Museum of Modern Art, New York 1999.
progetto e direzione lavori: arch. Luca Missio – Udine
realizzazione: Altacucina by Codutti Cucine – Udine.